Perugia - Carcere maschile

Perugia (Perugia) - Italia
Tipo di campo
Carcere
Fonte: DPE02

 

Storia
Tra il 1942 e l'estate del 1943 il carcere di Perugia ospitò numerosi detenuti politici tra i quali 106 minorenni e almeno 15 maggiorenni provenienti dalla Dalmazia, dall'Istria, dalla Slovenia e dal Montenegro.

La vita nel carcere

Secondo le testimonianze di Srećko Ozretić e Jerko Matošić nella sezione femminile del carcere, gestita dalle suore e adiacente a quella maschile vi erano almeno 400 detenute jugoslave, tra le quali circa 15 minorenni che con Ozretić furono trasportate dal porto di Spalato via Trieste nel capoluogo umbro.

I condannati minorenni dei territori jugoslavi annessi che arrivarono a Perugia tra la fine del 1941 e l'estate del 1943, vennero raggruppati in base alla gravità della condanna ricevuta. “Noi del gruppo 7 – ricorda Srećko Ozretić detto Slajo, di Spalato – fummo rinchiusi all'ultimo piano, perché considerati meno pericolosi. Nei piani più bassi erano sistemati anche molti italiani, sia comunisti che detenuti comuni. Durante l'ora d'aria ci incontravamo tutti insieme nel cortile. Dividevamo i viveri, i vestiti e le sigarette che i nostri familiari ci inviavano da casa. Con il cappotto che mi aveva regalato mia madre, due ragazzi di Cattaro ne ricavarono dei berretti partigiani”.


Pave Matulić rammenta: ”Avevamo concordato che ad ognuno spettassero un paio di pantaloni, una giacca, due camice e una maglietta, il resto lo cedevamo al collettivo. Al mio amico Tonći Mogić che era malato, gli furono regalate due maglie”. Ivan Slade racconta: “Sono arrivato per ultimo nel luglio del 1943. Mi hanno dato il numero 106. Non eravamo solo dalla Dalmazia. Con noi c'erano sia montenegrini che istriani. Quasi tutti facevano parte degli SKOJ e dell'USAOJ, le due organizzazioni giovanili del Partito Comunista. Ci rifiutammo di fare alcun tipo di attività lavorativa pretendendo un trattamento consono al nostro status di prigionieri politici e come punizione ci fu tolta la cena. A Perugia, a onor del vero, non ci fu torto un capello”.


Milivoj Lalin ricorda: ”Con i soldi che ci inviavano da casa potevamo comprare della marmellata e dello zucchero. Io ricevetti anche dei libri – mi ricordo un libro di Maksim Gor'kij e una grammatica italiana che tenevo per precauzione appesi fuori dalla finestra con uno spago”.


La resistenza in carcere


Con la caduta del fascismo il 25 luglio del 1943 gli jugoslavi iniziano ad organizzarsi. Ricorda Srećko Ozretić: “Seguendo il consiglio di un detenuto sloveno molto esperto ci siamo organizzati in piccole formazioni partigiane e le chiamammo 'Matija Gubec', 'Proleterska' e 'Ivan Cankar' in onore dei nostri eroi partigiani. Con i carcerati più anziani discutevamo della situazione politica, del comunismo e soprattutto di come liberarci. Per motivare anche gli altri detenuti cantavamo spesso canzoni contro Mussolini che rimbombavano dall'ultimo piano giù per tutto il carcere”. Pave Matulić rammenta che fu fatta una scritta nel corridoio «il fascismo non c'è più». “Per raccogliere della carta con cui scrivere degli opuscoli – ricorda sempre Matulić – alcuni di noi simulavano il mal di pancia per ricevere una medicina in polvere che la guardia medica del carcere ci distribuiva all'interno di in un foglio di carta piegato. Avevamo dell'inchiostro. Con le conserve di sardine facevamo dei coltellini.”


La rivolta e il tentativo di fuga


Dai ricordi di Pave Matulić: “La notizia della capitolazione italiana fece sì che molti prigionieri politici venissero rilasciati. Ma noi fummo trattenuti. Decidemmo quindi di evadere con il proposito di raggiungere Ancona per poi tornare a casa”. Srećko Ozretić ricorda: “Tramite il nostro capo sloveno avevamo raggiunto un accordo con i comunisti italiani. Loro si sarebbero occupati dei fascisti di fuori e noi delle guardie dentro. Saremmo dovuti arrivare a una pianura in centro Italia dove avremmo trovato le armi per andare coi partigiani italiani. L'accordo prevedeva che un secondino ci avrebbe dato le chiavi, a patto che non avessimo fatto uscire i detenuti comuni. Ricevemmo le chiavi e una pistola di mollica di pane, dettaglio questo, che non rivelai per non demoralizzare i compagni”. Più dettagliato il ricordo di Ivan Slade: “La pistola era fatta di mollica di pane dipinta con del carbone e la canna era costruita con il coperchio di una lattina di sardine arrotolata”. Continua Srećko Ozretić: “Il 9 settembre le donne detenute nel settore femminile ci contattarono e ci chiesero quali fossero le nostre intenzioni.” E il 12 settembre un gruppo di giovani “a piedi scalzi con le scarpe legate alla cinta per non far rumore”, ricorda Matulić, riesce a liberare una parte del gruppo. Ma la chiave si spezza e non tutti riescono a uscire. Srećko Ozretić racconta: “Jerko Matosić e altri rimangono dentro. Corriamo per i corridoi, incontriamo un secondino: impugno la pistola per farlo arrendere. Un compagno mi dice di sparare e io gli do la pistola affinché spari lui e questa gli si sbriciola in mano. Dovevate veder la faccia di lui. Da morir dal ridere! Diamo un colpo in testa al secondino rimasto immobile dallo choc e gli prendiamo le chiavi. Riusciamo a liberare tutti del nostro gruppo e a rinchiudere parecchi secondini nonché il direttore del carcere in persona. I detenuti comuni nel frattempo, capito che non sarebbero stati liberati, iniziano ad urlare e a far baccano, attirando l'attenzione dei fascisti locali. Quando usciamo per andar a liberare le donne, i fascisti con i fez neri ci aspettano fuori con una mitragliatrice puntata e ci sparano ferendo uno di noi. Decidiamo di asserragliarci nel carcere, che riuscimmo a tenere per due giorni interi”.


La resistenza nel carcere fu piegata dall'arrivo di un plotone di tedeschi. I rivoltosi furono rinchiusi negli scantinati e tenuti a regime strettissimo. Gli fu dato da mangiare due volte in sette giorni come rammenta Milivoj Lalin. Il 5 ottobre i fascisti, con ogni probabilità le MVSN, li condussero nei camion con le mani legate ai polsi fuori città. “Pensavamo che ci avrebbero fucilati” rammenta Ivan Slade.


Il trasporto per Dachau


Il trasporto dei detenuti jugoslavi da Perugia a Dachau parte il 5 ottobre 1943. La lista dei detenuti slavi prelevati dal comando tedesco in data 5 ottobre 1943 redatta dal direttore del carcere riporta i nominativi di 105 jugoslavi. Uno di loro – Branko Stanišić – risulta deceduto per polmonite prima della partenza. Se si confronta questa lista con quella degli arrivi a Dachau del giorno 11 ottobre 1943, si possono rintracciare i nomi di 103 detenuti prelevati dal carcere di Perugia.


Al convoglio in partenza da Perugia vengono aggregate altre 28 persone, anch’esse detenute nel carcere. Sono, nella maggior parte dei casi, civili anch’essi jugoslavi fuggiti dopo l’8 settembre 1943 dall’internamento, ricatturati e rinchiusi nel carcere di Perugia. Tra loro c’è, ad esempio, Tomislav Dean, nato a Zlarin nel 1911 e internato su ordine del Governatorato della Dalmazia nel campo di concentramento di Urbisaglia il 6 maggio 1942. Tra i 28 deportati ci sono anche alcuni prigionieri di guerrajugoslavi e tre britannici – anch’essi fuggiti dai campi di prigionia dopo l’8 settembre.


Nel trasporto che arriva a Dachau l’11 ottobre – composto quindi in totale da 131 persone cui vengono assegnati i numeri di matricola da 56.259 a 56.389 – compare anche il nome di un unico italiano. Si tratta di Edoardo Micheli, nato a Perugia nel 1902 e arrestato alla fine di settembre assieme ad altri italiani con l’accusa di “propaganda antitedesca e antifascista”. Tuttavia, durante la sosta del convoglio a Bologna, gli italiani riuscirono a negoziare con i tedeschi la propria liberazione. Solo Micheli – che morirà nel campo di Dora il 16 maggio 1944 – continuerà il viaggio verso Dachau.


Dal racconto di Ivan Slade: “Fummo fatti salire su due vagoni per il trasporto di bestiame il 5 ottobre. Negli altri vagoni del convoglio c'erano anche degli italiani. Non sapevamo dove eravamo diretti. Ci fermammo a pochi chilometri Bologna per una notte intera, poiché la stazione della città era stata bombardata; i tedeschi ci controllarono con le torce. Ci dettero pane e margarina. Gli italiani scomparvero dal convoglio”.


Ricorda Lalin: “Sul ponte del Po ho visto tutta quell'acqua e ho immaginato di potermici tuffare per quanta sete avevo. Superato il fiume capimmo che stavamo andando in Germania. Iniziammo a cantare canti partigiani. E ci auguravamo che la Germania di lì a tre mesi sarebbe capitolata. A Padova ci fermammo e la croce rossa repubblicana ci dette della pasta”.


Il ricordo di Slade aggiunge che per avere un contenitore in cui far versare la pasta un detenuto ruppe la sua valigia e della parte superiore ne fece un piatto da cui mangiarono tutti. “Questa ve la offre Mussolini” gli disse l’uomo della Croce Rossa, ricordano Lalin e Slade.

Il treno si fermò di nuovo dalle parti di Tarvisio. Le testimonianze di Lalin, Slade e Matulić combaciano nel ricordo di formazioni fasciste slovene - i Domobranci o Domobranzi - che consegnarono loro delle mele e un pane.


Il trasporto continuò e alla fine del sesto giorno passò per una Monaco ancora in fuoco per bombardamenti avvenuti un paio di giorni prima, con le carcasse degli aerei ancora fumanti (Slade) e persone con la scritta OST sui vestiti (Ostarbeiter, i lavoratori coatti delle zone dell'Unione Sovietica occupate dai tedeschi) che lavoravano lungo la ferrovia (Matulić).
Il treno arrivò nel campo di Dachau la sera dell'11 ottobre.


Dachau


Scesi dal treno “fu l'orrore”: questo il lapidario ricordo di Jerko Matošić. “Ci accolsero coi manganelli” - ricorda Tomislav Erak -. ‘Schnell! Los!’, urlavano le SS”. Dovettero rimanere a lungo in piedi nel piazzale del lager. Le SS gli spruzzarono del disinfettante e gli furono tagliati i capelli a zero. Ebbe inizio la registrazione. Ad ognuno diedero un paio di zoccoli e le divise zebrate a cui dovettero loro stessi applicare il triangolo rosso, simbolo del detenuto politico, e ben in vista, il loro numero di matricola. Tutti gli altri averi andavano consegnati, e per molti che avevano trascinato con sé una valigia dall'Italia, “il disappunto fu enorme”, ricorda Slade.


Sistemati tutti in due baracche contigue furono avvicinati da un polacco che fece loro notare di essere in Germania e di stare attenti. Srećko Ozretić a proposito commenta: “Era uno di questi poliziotti del lager, un Kapo. Non avevano scelto di farlo, si trovano in una situazione tremenda. Ed erano i peggiori”.


Dopo due giorni fu enorme la gioia quando videro arrivare un gruppo di detenuti provenienti dal carcere di Sulmona. Tra di loro c'erano oltre 190 dalmati, istriani, montenegrini e sloveni.


Dopo circa 20 giorni di quarantena il gruppo unito dei detenuti di Perugia e Sulmona fu interrogato dalle autorità del campo. “Ci venne chiesto – rammenta Ozretić – se fossimo pratici in qualche mestiere. Avendo visto le bombe sulle città molti di noi credettero fosse cosa saggia affermare di essere contadino. Si pensava che in campagna la vita fosse più sicura e si potesse addirittura tentare la fuga. Ma ci siamo sbagliati di grosso”.


Circa 200 di loro furono deportati a Buchenwald. Gli altri rimasero a Dachau.


“Ci fu chiesto chi fosse macellaio – racconta Matošić – io, dissi senza pensarci due volte”, io – gli fece eco uno di Sebenico. Furono mandati a lavorare nella fabbrica di insaccati Wilfert al confine con la Boemia per 15 mesi. “E pensare che il macellaio in famiglia era mio fratello non io. Ebbi una vita facile nella fabbrica “.


La vita in un campo di concentramento enorme come quello di Dachau, creato nel 1933, con decine di migliaia di detenuti che parlavano una miriade di lingue, ebbe chiaramente un impatto violento sui giovani jugoslavi provenienti da un minuscolo carcere come era quello di Perugia. Inoltre, il fatto di trovarsi in Germania e non più in Italia, comportava anche l’impossibilità di ricevere viveri e vestiti da casa. Non fu così solo per gli sloveni, che, approfittando del fatto che una parte del loro territorio era stata annessa alla Germania, e facendo leva sul gran numero di detenuti provenienti da quei territori, riuscirono a farsi inviare cibo e vestiti. Anche se non tutti gli sloveni erano poi disposti a cedere una parte dei beni agli altri jugoslavi. I detenuti comunisti invece non usavano il criterio della nazionalità nello spartire i pochi averi, bensì quello della posizione politica delle singole persone.


I giovani jugoslavi, simpatizzanti dei partigiani di Tito e filocomunisti riuscirono comunque a sopravvivere a Dachau grazie al supporto dei loro connazionali e probabilmente grazie alla coesione che si era creata tra loro con l'esperienza di Perugia. Avevano visto cadere l'Italia e ora attendevano la capitolazione della Germania.


Dalla seconda metà del 1944 e soprattutto durante l'inverno del 1944-45 Dachau divenne, come ogni altro campo di concentramento tedesco sul territorio del vecchio Reich, stracolmo di detenuti trasferiti dai campi a oriente in seguito all’avanzata dell'Armata rossa. Arrivavano a migliaia, sfiniti dopo centinaia di chilometri spesso percorsi a piedi in quelle che furono chiamate ‘le marce della morte’. Nel campo di Dachau, ormai stracolmo di internati, ogni giorno morivano decine di persone a causa della fame, del tifo e di altre epidemie. Tra il 1941 e il 1945 i morti a Dachau si calcola siano stati 41.500 circa.
Nonostante ciò, furono pochi i giovani jugoslavi deportati dal carcere di Perugia a non fare ritorno dal campo di Dachau.


Buchenwald


Se Dachau, in base all'ordinanza del 2 gennaio 1941 di Heydrich il capo della Direzione generale per la Sicurezza del Reich (Reichssicherheitshauptamt, RSHA), era considerato come campo di detenzione preventiva (Schutzhaft) di livello uno, cioè per persone accusate di crimini non gravi e quindi rieducabili tramite in lavoro, il campo di concentramento di Buchenwald era invece considerato di livello due, cioè per persone che avevano commesso delitti gravi, da rieducare attraverso il lavoro forzato. 



Il campo centrale di Buchenwald, che si trovava a breve distanza dalla cittadina di Weimar, fu aperto nel 1937. Fino all'inizio della guerra fu un campo destinato ai tedeschi: detenuti criminali, politici, ebrei, sinti e rom, testimoni di Geova, omosessuali, persone socialmente non integrabili nella società nazista (i cosiddetti “asociali”). Il campo era gestito dalle SS che si occupavano principalmente dello smistamento dei detenuti tra le ditte appaltatrici che sfruttavano la mano d'opera , e della sorveglianza perimetrale dei campi. La gestione interna del campo era invece affidata agli stessi detenuti stessi. Divisi gerarchicamente, i detenuti si occupavano di controllare il lavoro, redigevano le liste, facevano gli appelli e controllavano le baracche. Per questi compiti di solito le SS prediligevano i detenuti comuni, in quanto ritenuti più in grado di resistere ai soprusi e al regime di violenza. Ma a Buchenwald i detenuti politici tedeschi, in prevalenza membri del partito comunista tedesco, tramite una lotta intestina senza esclusione di colpi, riuscirono a prendere il posto dei detenuti comuni e a offrire un servizio d'ordine accettato dalle SS.


Con lo scoppio della guerra e l'arrivo di deportati da tutta Europa, i comunisti tedeschi per mantenere i loro posti chiave all'interno della gestione del campo, scelsero affiliati comunisti di ogni paese affinché controllassero i loro connazionali. Ed era quello che le SS volevano. La visione di Himmler, capo delle SS, era quella di un “nuovo ordine europeo” diviso in nazioni etniche guidate dal Volk tedesco. Quindi, una divisione nazionale dei detenuti a Buchenwald, tutti ugualmente utilizzati nel lavoro forzato, era un tipo di organizzazione che incontrava il loro favore.


Responsabile dei detenuti jugoslavi a Buchenwald fu il comunista sloveno Janez Ranciger. Proveniente dai territori sloveni annessi alla Germania, Ranciger fu deportato ad Auschwitz nel 1941 e successivamente trasferito, tramite l'aiuto di comunisti polacchi e tedeschi, a Buchenwald nel marzo 1943. Intorno a lui si formò un primo nucleo di resistenti jugoslavi, soprattutto sloveni che tramite il suo intervento riuscirono ad evitare il trasferimento nei sottocampi del lager.


Gli jugoslavi, in particolare i giovani provenienti da Perugia che arrivarono a Buchenwald il 30 ottobre 1943 furono mandati a lavorare nella cava a spaccar pietre per alcuni mesi. “Fu una specie di test – ricorda Lalin – dopodiché fummo inclusi nel collettivo, essendo tutti o quasi già politicizzati nei mesi precedenti”. Ricorda Srećko Ozretić: “Loro – quelli del collettivo - potevano decidere se mandarti al trasporto o lasciarti al campo... era nelle loro possibilità”. Mandare le persone al trasporto significava consegnarle all'arbitrarietà con cui le SS gestivano i sottocampi, alcuni dei quali costruiti sotto terra, come ad esempio i terribili campi di Laura, Dora-Mittelbau e Ohrdruf. Infatti, era nella possibilità dei comunisti del lager impiegati dalle SS come ausiliari negli uffici dell'amministrazione, cambiare i nomi delle persone comprese nelle liste di trasporto. Alle SS importava solo il numero di lavoratori, non chi fosse mandato. 


La maggior parte degli jugoslavi provenienti da Perugia riuscì a salvarsi proprio grazie all'aiuto dei comunisti tedeschi e della mediazione dei capi sloveni del lager. Fu così per Tomislav Erak, assegnato al lavoro di pulizia delle baracche.


Nella seconda metà del 1944 anche Buchenwald come Dachau divenne centro di raccolta per tutti i detenuti che le SS costringevano a marciare da oriente per sfuggire al sopraggiungere dell'Armata rossa. Per i nuovi arrivati i detenuti costruirono un secondo campo. Il nuovo lager di Buchenwald si riempì di affamati e disperati, ma rimase separato dal vecchio che continuò a funzionare come prima. Di tanto in tanto alcuni detenuti del lager principale andavano a vedere se ci fossero dei comunisti nel nuovo lager nel tentativo di trasferirli. Grazie a questa attività, il collettivo politico di Buchenwald riuscì a salvare anche un consistente gruppo di ebrei, tra i quali numerosi bambini.


Il collettivo di Buchenwald viene ricordato anche per essersi impossessato militarmente del campo alla fine della guerra, prima dell’arrivo degli americani. Tomislav Erak così ricorda il giorno della liberazione del campo avvenuta l'11 di aprile 1945: “Mi ricordo benissimo come il mio amico Ivo Juraga si è messo a rincorrere le SS”. 


Molti altri dei detenuti jugoslavi deportati dalle carceri di Perugia e Sulmona diedero un apporto fondamentale alla liberazione di Buchenwald.

Thomas Porena (2018)



note
La scheda è stata redatta utilizzando alcune testimonianze orali e scritte tradotte dall’autore.
Srećko Ozretić: intervista rilasciata il 1 dicembre 2008 per l'USHMM, RG-50.587*0028 https://collections.ushmm.org/search/catalog/irn44843 (ultimo accesso 17.1.2018). Ivan Slade: intervista rilasciata il 29 novembre 2008 per l'USHMM, RG-50.587*0024, https://collections.ushmm.org/search/catalog/irn44839 (ultimo accesso 17.1.2018). Jerko Matošić: intervista rilasciata il 30 novembre 2008 per l'USHMM, RG-50.587*0027, https://collections.ushmm.org/search/catalog/irn44842 (ultimo accesso 17.1.2018). Pave Matulić: i ricordi di Pave Matulić, Uspomene koncentracionih logora, in: Feljton “Odjeka Mosora”, (Omiš, ottobre 1969-maggio 1971), http://www.almissa.com/pavematulic.htm (ultimo accesso 17.1.2018). Milivoj Lalin: dal diario in possesso della famiglia Matulić, Archivio privato famiglia Matulić, per gentile concessione dei famigliari. Tomislav Erak: intervista rilasciata alla testata web indipendente croata Tris, messa on line da Hrvoslav Pavić il 5 luglio 2015 e consultabile su http://tris.com.hr/2015/07/slobodarski-duh-sibenika-tomislav-erak-je-zbog-grafita-interniran-u-dachau-i-buchenwald-zbog-tuluma-izletio-iz-partije/ (ultimo accesso 17.1.2018).
 
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